In house providing, capitali privati e vincoli per il legislatore

L’istituto dell’in house providing, sorto per effetto dell’attività pretoria della Corte di Giustizia CE (UE) ed oggetto di successive elaborazioni – che ne avevano, fino ad epoca recente, determinato una certa “stabilizzazione” quanto a caratteri distintivi e presupposti applicativi – è tornato al centro delle riflessioni dottrinali e giurisprudenziali a seguito dell’entrata in vigore del pacchetto di Direttive UE concernenti concessioni e appalti pubblici (Direttive 23, 24 e 25/2014/UE). I citati interventi normativi eurounitari hanno parzialmente mutato i connotati del volto dell’istituto dell’in house, sotto svariati profili e, in particolare (e trattasi della tematica oggetto specifico del presente contributo), in riferimento alla “natura” (pubblica o privata) ed alla dimensione (totalitaria, maggioritaria, minoritaria) delle partecipazioni al capitale sociale del soggetto cui un’Amministrazione intenda affidare senza gara un contratto pubblico. Introducendo un elemento che – pur non costituente novità assoluta – appare certamente rilevante per il suo carattere di applicabilità alla generalità delle ipotesi di in house providing, le Direttive del 2014 hanno, per quanto qui di specifico interesse, affermato la qualificabilità quale soggetto «in house» – ai fini della “sottrazione” alla gara per l’affidamento di un contratto pubblico – anche di una società alla quale partecipino capitali privati (sempre che risultino sussistenti ben precisi presupposti e a patto che, naturalmente, sussistano i requisiti dell’attività prevalente e del controllo analogo).

Continua a leggere su Federalismi