Partecipate: per avere il controllo pubblico non basta la sola maggioranza di soci pubblici in Cda

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La sentenza 16/2019 delle Sezioni riunite della Corte dei Conti mette un punto fermo alla definizione di “controllo pubblico” per le società partecipate, a seguito delle diverse (e anche contradditorie) interpretazioni scaturite dall’articolo 2 del Testo unico Partecipate. I contenuti della sentenza rivestono particolare importanza per tutte quelle realtà in cui la partecipazione del socio pubblico è frazionata in numerose quote (spesso anche micro), le quali, secondo alcuni orientamenti emersi da sentenze delle Corti dei Conti regionali e dalla stessa Struttura di Monitoraggio del Mef, avrebbero dovuto essere considerate “a controllo pubblico” e dunque soggette a tutti gli adempimenti del TUSP, comprese le disposizioni più restrittive relative non solo al numero dei componenti del consiglio di amministrazione, ma anche in merito ai limiti al trattamento economico degli amministratori, alle regole sulla incompatibilità/inconferibilità degli incarichi, ai principi fondamentali sull’organizzazione e sulla gestione, alla disciplina delle crisi d’impresa, alle regole sulla gestione dei rapporti di lavoro e, infine agli obblighi di trasparenza.

La Sezioni Riunite hanno invece rappresentato che, per poter definire una società a controllo pubblico, ed applicare le disposizioni restrittive previste dal Tusp, non è sufficiente che i soci pubblici abbiano la maggioranza dei voti in assemblea ed in consiglio di amministrazione, ma va fatta una verifica sui poteri che le norme statutarie ed i patti parasociali attribuiscono, effettivamente, ai soci pubblici.
In merito a ciò, i giudici contabili evidenziano infatti che il richiamo, effettuato dalla sezione regionale, alla nota di orientamento della struttura di controllo e monitoraggio del MEF non è risolutivo, e che l’accertamento della sussistenza dello status di “società a controllo pubblico” non possa essere desunto dai meri indici costituiti dalla maggioranza di azioni e di consiglieri nel C.d.A. ma richieda precipua attività istruttoria volta a verifcare se, nel caso concreto, sussistano le condizioni richieste dall’art. 2, lett. b) del TUSP. In mancanza di tali condizioni la società non rientra nel perimetro delle società a controllo pubblico.

In sostanza, la pronuncia della Corte afferma che la situazione di “controllo pubblico” deve risultare esclusivamente da norme di legge o statutarie o da patti para sociali che assicurino alle amministrazioni socie di incidere sulle decisioni finanziarie e strategiche della società: se la componente pubblica è frazionata tra più amministrazioni, occorre che i soci pubblici si avvalgano di un “coordinamento istituzionalizzato” (sulla base appunto di legge, statuto o patti parasociali) idoneo a determinare l’orientamento delle scelte strategiche della società.