La produzione di rifiuti cresce più del PIL. Un confronto con l’Europa che conta

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Italia, 2020. Su 174,9 milioni di tonnellate di rifiuti complessivamente prodotte, quelle riconducibili alle attività economiche hanno raggiunto 81,1 milioni di tonnellate, con un’incidenza relativa pari al 46%. Ovvero, poco meno di un chilogrammo di rifiuto su due trova lì la sua origine. E la tendenza, negli ultimi 10 anni, è sempre stata in crescita sia in termini assoluti sia come percentuale della produzione complessiva (unico leggero calo a seguito delle restrizioni per contenere la diffusione del COVID-19).

Inoltre, la gestione delle acque e quella dei rifiuti sono i principali produttori, con 42,2 milioni di tonnellate, ovvero il 52% del totale dei rifiuti derivanti dalle attività economiche. Segue, a distanza, la manifattura, con 23,4 milioni di tonnellate, corrispondenti al 29% dei rifiuti originati dalle attività economiche. Osservando sempre l’ultimo decennio, si nota come il peso specifico dei rifiuti derivanti dallagestione di acque e rifiuti sia cresciuto. Basti pensare che nel 2010 questa attività totalizzava circa 20,2 milioni di tonnellate, pari a poco più del 30% delle attività economiche, a fronte dei già menzionati 42,2 milioni di tre anni or sono. E ancora: la sola “gestione dei rifiuti” è passata dai 17,9 milionidi tonnellate del 2010 ai 37,2 milioni del 2020 (+108% in dieci anni), diventando così il primo settore produttore di rifiuti.

I rifiuti secondari – derivanti dal trattamento dei rifiuti stessi – ammontano a 25,3 milioni di tonnellate,pari a circa un terzo dei rifiuti prodotti dalle attività economiche nel 2020. Nella classificazione per tipologia, seguono gli imballaggi (11,3 milioni di tonnellate), che costituiscono la categoria di rifiuti primari più prodotta, e i fanghi e gli altri rifiuti liquidi (11,1 milioni di tonnellate).

Cosa ci dicono questi numeri? Che tra il 2010 e il 2020, i rifiuti derivanti dal trattamento dei rifiuti medesimi sono aumentati, tanto in peso quanto in quota del totale dei rifiuti da attività economiche. È evidente, quindi, che la produzione di tali rifiuti sia diventata una peculiarità del sistema italiano.  A meno che, le recenti tendenze che mostrano alcuni primi cenni di inversione, vengano confermate nei dati del dopo 2020.

Quanto manca al “disaccoppiamento”?

Le politiche ambientali degli ultimi anni, e nello specifico quelle che ruotano intorno al tema dell’economia circolare, si sono concentrate sul tema del cosiddetto disaccoppiamento o decoupling tra la creazione di valore aggiunto e la produzione di rifiuti. Nel nostro Paese, invece, la produzione di rifiuti da attività economiche cresce a ritmi superiori a quelli del PIL. Non solo, il confronto tra le performances dell’Italia e altri grandi Stati dell’Unione come Germania e Francia evidenzia il mancato raggiungimento del disaccoppiamento tra PIL e rifiuti. Osservando i dati numerici, poi, emerge chiaramente come l’Italia si sia progressivamente allontanata dall’obiettivo, con una differenza tra la crescita dei rifiuti prodotti dalle attività economiche e quella del PIL vicina al 30%. Non solo. La nostra è la nazione ove la produzione di rifiuti è cresciuta di più (+21,5%), nonostante la riduzione del PIL (-8,2% nel decennio). Francia e Germania con, rispettivamente -8,6% e -3,2%, mostrano un disaccoppiamento avvenuto. La Spagna, invece, è ancora lontana dal disaccoppiamento pur con risultati lievemente migliori dell’Italia in esito a minore intensità di produzione di rifiuti per unità di PIL.

Inoltre, l’Italia è il Paese che presenta la maggiore intensità di produzione per unità di PIL, lungo l’intero decennio 2010-2020. Una tendenza, questa, che ha raggiunto il picco nel 2020, ove l’indicatore si è attestato a 51,6 kilogrammi per migliaia di euro di PIL, complice anche l’impatto negativo del COVID-19 sull’economia, allargando così lo spread con gli altri Stati europei.

La produzione di rifiuti per unità di PIL è più elevata nell’industria e nei servizi

Analizzando i rifiuti primari, l’Italia conferma di avere la più alta intensità di produzione di rifiuti per unità di PIL. La differenza tra il nostro e gli altri Paesi emerge e si rinforza a partire dal 2016 in avanti: negli anni più recenti il divario tra l’Italia e le altre maggiori economie europee cresce, imputabile soprattutto alla produzione di rifiuti primari.

È evidente, quindi, che una parte rilevante della maggiore intensità di produzione di rifiuti primari è riconducibile al tessuto manifatturiero domestico, che si dimostra un produttore più consistente di rifiuti se raffrontato a quello di Francia e Germania. Un’anomalia che non necessariamente deve essere letta come minore efficienza o attenzione alla prevenzione del sistema industriale italiano, piuttosto rivela una certa immaturità della disciplina dei sottoprodotti (di cui si dirà più oltre), che induce le imprese a gestire come rifiuti anche materiali e scarti che potrebbero essere reimmessi nel processo produttivo, con un addendum di costi e carico amministrativo.

L’Italia produce anche più rifiuti da rifiuti degli altri Paesi UE

Stante il peso che rivestono sul totale dei rifiuti originati dalle attività economiche in Italia, pari al 31% dell’insieme, è stata valutato l’andamento della produzione di rifiuti secondari per unità di PIL dei diversi Paesi europei.

In Italia la produzione di rifiuti derivanti dal trattamento dei rifiuti rapportata al PIL è decisamente superiore a quella della Francia, ma anche al di sopra di quelle di Spagna e Germania.

Si tratta di un trend consolidato nel corso degli ultimi dieci anni, e in particolare a partire dal 2014, quando l’indicatore italiano eccede costantemente i 15 kilogrammi per migliaia di euro di PIL, per poi attestarsi sui 16,1 nel 2020.

In sintesi, emerge un certo “primato” italiano nel produrre più rifiuti da rifiuti per unità di PIL generata, confermando così l’importanza di approfondire tale sottoinsieme dei rifiuti per trarne utili indicazioni di policy che possano portare ad un efficientamento della gestione.

Per quanto concerne il dettaglio produttivo sui rifiuti secondari, i residui di cernita costituiscono la componente principale, pari a 16,8 milioni di tonnellate, corrispondenti al 21% dei rifiuti prodotti dalle attività economiche. Detto, in altri termini, più di un rifiuto su cinque di quelli derivanti dalle attività economiche è costituito da scarti di selezione, ovverosia residui provenienti da processi di cernita meccanica dei rifiuti, rifiuti combustibili (vale a dire combustibile derivato da rifiuti) e frazioni non compostate di rifiuti biodegradabili.

A seguire, troviamo i fanghi e rifiuti liquidi derivanti dal trattamento dei rifiuti, con 4,6 milioni di tonnellate, e i rifiuti minerali dal trattamento dei rifiuti e rifiuti stabilizzati, con 3,9 milioni di tonnellate. Tali quantitativi rappresentano cumulativamente il 34% dei rifiuti secondari, nonché oltre il 10% dei rifiuti prodotti dalle attività economiche.

La presenza di volumi ingenti di scarti di selezione e altri rifiuti derivanti dal trattamento dei rifiuti non è di per sé un elemento negativo, in un Paese che eccelle nel riciclo ed è, al contempo, povero di materie prime. È evidente, tuttavia, che tali numeri celano anche la mancanza di impianti per la chiusura del ciclo dei rifiuti, specialmente di recupero energetico. Elemento, questo, che al contrario costituisce un tratto peculiare italiano rispetto agli altri grandi Paesi europei, e in particolare a Francia e Germania.

Relativamente alla gestione di tali frazioni, il Programma Nazionale per la Gestione dei Rifiuti (PNGR) si è espresso in maniera chiara, aprendo le porte ad un cambio di rotta. Tra le azioni per colmare il gap impiantistico di gestione dei rifiuti urbani residui, il PNGR raccomanda la preferenza per opzioni impiantistico-tecnologiche finalizzate al recupero energetico diretto, senza pretrattamenti, in maniera tale da massimizzare la valorizzazione energetica dei rifiuti. Parimenti, occorre incrementare anche la qualità, e non soltanto la quantità, dei rifiuti derivanti dalla raccolta differenziata, andando così a ridurre i rifiuti residui. Lo stesso indirizzo andrebbe esteso al trattamento dei rifiuti delle attività economiche.

Per quanto riguarda, invece, il flusso strategico degli scarti derivanti dai trattamenti di selezione delle frazioni secche da raccolta differenziata e di preparazione a compostaggio e digestione anaerobica delle frazioni organiche, il Programma richiede di accrescere la quantità e la qualità di quanto raccolto, così da ridurre gli scarti delle operazioni di recupero di materia.

Tutto considerato, il PNGR mira, da un lato, a ridurre la generazione di scarti e altri rifiuti da rifiuti, da cui si deduce implicitamente che l’attuale ricorso a tali forme di trattamento sia eccessivo con ampi margini di efficientamento. Dall’altro lato, si vuole puntare sul recupero energetico di tali frazioni a discapito dello smaltimento in discarica.

Le altre frazioni critiche: fanghi, rifiuti plastici, veicoli fuori uso e residui di combustione

Fanghi

Vi sono ulteriori flussi per i quali l’Italia detiene un primato nella produzione: i fanghi, i rifiuti plastici, i veicoli fuori uso e i residui di combustione.  I primi – dati 2020 – rappresentano circa il 14% dei rifiuti da attività economiche e sono così suddivisi: 6 milioni di tonnellate di fanghi comuni, pari al 7,4% dei rifiuti derivanti dalle attività economiche e 5,1 milioni di tonnellate di fanghi derivanti da acque reflue industriali, corrispondenti al 6,3% del sottoinsieme di riferimento.

Il dato complessivo, pari a 11,1 milioni di tonnellate, è decisamente superiore a quello degli altri Paesi: Germania (3,3 milioni), Francia (1,7 milioni) e Spagna (1,5 milioni). Rapportando i dati relativi alla produzione dei fanghi con quelli afferenti alla creazione di valore aggiunto emerge che l’Italia presenta una forte intensità per unità di PIL.

Le differenze tra l’Italia e gli altri Paesi UE sono imputabili a diversi elementi, sia di natura normativo-regolatoria sia tecnologica. Il nostro Paese, infatti, dovrebbe adottare in misura maggiore soluzioni volte alla riduzione dei volumi dei fanghi prodotti, quale ad esempio l’essicazione, unitamente a forme di recupero dei nutrienti e del fosforo. A questi, si aggiunga l’incremento potenziale del riutilizzo delle acque reflue. A questo proposito si segnalano perduranti difficoltà nel disciplinare lo spandimento dei fanghi in agricoltura, il recupero di fosforo e nutrienti e i criteri di End of Waste (EoW).

È evidente, quindi, che l’efficienza gestionale dei fanghi da depurazione passa da un adeguamento virtuoso tanto delle infrastrutture di depurazione e trattamento quanto delle regole che sottendono la gestione di tale flusso di rifiuti, allo scopo di valorizzare una risorsa preziosa.

I residui di combustione

Con oltre 8,1 milioni di tonnellate, i residui di combustione rappresentano circa il 10% dei rifiuti prodotti in Italia dalle attività economiche nel 2020. Nella categoria, che costituisce dunque un sottoinsieme rilevante di tali rifiuti, rientrano i residui della depurazione dei fumi e le scorie e le ceneri di processi di trattamento termico e di combustione.

Anche per tale tipologia di rifiuti, l’Italia risulta essere il Paese ove l’intensità di produzione – rispetto al PIL generato – è maggiore, con 4,8 kilogrammi di rifiuti per 1.000 euro di PIL. Nell’ordine, seguono: Germania (3,8 kilogrammi), Spagna (2,3 kilogrammi) e Francia (1,2 kilogrammi).

La peculiarità di tali dati risiede anche nel fatto che l’Italia dispone di una dotazione inferiore di impianti di recupero energetico dei rifiuti rispetto a Paesi come Francia e Germania; ciò nonostante, l’elevata intensità di produzione si può spiegare soprattutto con il forte incremento (+2,1 milioni di tonnellate, rispetto al 2018) dei rifiuti aventi codice EER 10 02 02, vale a dire scorie non trattate provenienti dall’industria siderurgica. Un aumento rilevato anche dall’ISPRA nel Rapporto Rifiuti Speciali Edizione 2022, ove emerge che le scorie non trattate (rifiuti non pericolosi) sono cresciute di 1,4 milioni di tonnellate tra il 2019 e il 2020. Inoltre, osservando i volumi di rifiuti prodotti, si ha che l’Italia produce circa il 70% dei residui di combustione della Germania e oltre tre volte quelli generati in Francia e in Spagna.

I rifiuti in plastica

Un’altra categoria, ove l’analisi evidenzia una più consistente produzione di rifiuto da parte dell’Italia, è quella dei rifiuti in plastica. Nel complesso, si tratta di poco meno di 3,3 milioni di tonnellate di rifiuti, pari a circa il 4% dei rifiuti prodotti dalle attività domestiche nel nostro Paese nel 2020.

Nello specifico, in Italia sono stati originati 1,9 kilogrammi di rifiuti in plastica, laddove Germania e Francia si attestano sul kilogrammo e la Spagna sugli 0,7 nel 2020.

I veicoli fuori uso (VFU)

Per quanto concerne i veicoli fuori uso (VFU), che rilevano per circa il 3% del totale prodotto dalle attività economiche, anche in questa categoria l’Italia si conferma come il Paese con la più alta produzione per unità di PIL, pari a 1,4 kilogrammi per 1.000 euro di PIL nel 2020. Un dato, questo, doppio rispetto a quello della Spagna (0,7 kilogrammi) che occupa la seconda posizione nell’ordinamento proposto nel grafico sottostante, laddove lo spread con Francia (0,5 kilogrammi) e Germania (0,2 kilogrammi) risulta essere ancora più consistente.

Come agire? La strategia di prevenzione: sottoprodotti e simbiosi industriale

I numeri qui riportati e analizzati rendono evidente, quindi, la necessità di intervenire per avviare un percorso che porti a sganciare la creazione di valore aggiunto dalla produzione di rifiuto, specialmente riducendo i rifiuti derivanti dal trattamento dei rifiuti medesimi.

Accanto al miglioramento nel campo dell’ecodesign con una progettazione dei beni che ne riduca l’impatto ambientale lungo l’intero ciclo di vita, la strategia di prevenzione per ridurre i volumi di rifiuti da attività economiche creati passa attraversoun più efficace funzionamento dell’istituto del sottoprodotto e un più ampio ricorso alle pratiche di simbiosi industriale.

Fino ad ora, infatti, il perimetro dei sottoprodotti è stato eccessivamente ristretto, limitando la casistica della remissione di scarti nelle filiere produttive senza ulteriori trattamenti. Ciò che ha frenato lo sviluppo di tale istituto è l’incertezza applicativa della normativa di riferimento, che porta gli operatori a preferire la classificazione come rifiuti, anziché come sottoprodotti, sottoponendosi così a regole più stringenti e onerose (si veda L’Italia che Ricicla 2022, AssoAmbiente, novembre 2022). Le riforme previste dal PNRR per il settore dei rifiuti, vale a dire il PNGR e la SNEC (Strategia Nazionale per l’Economia Circolare), contengono diverse indicazioni utili in tal senso.

Nel Cronoprogramma di attuazione delle misure della SNEC, i progetti di simbiosi industriale sono richiamati così come l’utilizzo di strumenti normativi e finanziari per sostenerli.

Del resto, la simbiosi industriale costituisce uno dei pilastri della SNEC, relativamente alla trasformazione dei modelli produttivi, oltre ad una serie di azioni da traguardare al 2035, tra le quali si hanno la previsione di semplificazioni delle autorizzazioni e l’inserimento dei distretti circolari nelle linee guida di settore. La simbiosi industriale è stata anche richiamata nel verbale sulla riunione di insediamento dell’Osservatorio per l’Economia Circolare, riunitosi lo scorso dicembre 2022, così come è stata inserita nella sua proposta di programmazione.

(Fonte: Laboratorio REF)